C’è un equivoco che continua a camminare silenzioso nei corridoi degli studi professionali, delle imprese e – ancor più delicatamente – delle strutture sanitarie: la distinzione tra dati personali, dati sensibili e dati comuni.
Un equivoco comprensibile, certo. Ma superato, come un vecchio cartello stradale rimasto dopo che la strada è cambiata.
Con l’entrata in vigore del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), il legislatore europeo ha compiuto una scelta netta e, per certi versi, poetica: tutti i dati che parlano di una persona sono dati personali.
Nessun dato è banale, nessun frammento di identità è neutro.
Oggi, secondo il GDPR, non esiste più la distinzione formale tra “dati comuni” e “dati sensibili”.
Esistono invece:
Dati personali (art. 4 GDPR): qualsiasi informazione che consenta di identificare, direttamente o indirettamente, una persona fisica.
Dati particolari (art. 9 GDPR): una sotto-categoria di dati personali che richiede tutele rafforzate.
In altre parole:
👉 tutti i dati personali vanno protetti,
👉 alcuni vanno protetti di più.
I dati particolari: ciò che tocca l’essenza della persona.
Nel perimetro dei dati particolari rientrano informazioni che incidono profondamente sulla dignità, sulla libertà e sull’identità dell’individuo.
Tra questi troviamo:
dati genetici
dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica
dati relativi alla salute
convinzioni religiose o filosofiche
appartenenza sindacale
orientamento sessuale
Quelli che un tempo chiamavamo “dati sensibili” oggi vivono qui, in questo spazio di maggiore attenzione giuridica ed etica.
Dati sanitari: quando la protezione diventa cura i dati relativi alla salute sono, a pieno titolo, dati particolari.
Ed è qui che il GDPR alza la soglia di protezione: il trattamento di questi dati è, in linea generale, vietato.
Ma – come spesso accade nel diritto ben fatto – il divieto non è cieco.
L’articolo 9 del GDPR prevede specifiche eccezioni, perché la tutela della persona passa anche dalla possibilità di curarla.
Quando è lecito trattare i dati sanitari (senza consenso)Secondo l’art. 9 GDPR, i dati sanitari possono essere trattati anche senza il consenso dell’interessato, solo se ricorrono determinate condizioni, tra cui:
motivi di interesse pubblico rilevante, sulla base del diritto nazionale o dell’Unione Europea
motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica
finalità di cura, medicina preventiva, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale
In questi casi, il GDPR compie un gesto di equilibrio: non chiede il consenso, ma chiede responsabilità.
L’informativa: non burocrazia, ma patto di fiducia.
Se il consenso non è necessario, l’informazione lo è sempre.
Il centro medico, la struttura sanitaria o il singolo professionista devono fornire al paziente un’informativa completa, chiara e comprensibile, che spieghi:
quali dati vengono trattati
per quali finalità
con quali modalità
per quanto tempo e quali sono i diritti dell’interessato
L’informativa non è un modulo da firmare distrattamente.
È un atto di trasparenza, un patto di fiducia, una forma moderna di rispetto.
Uno sguardo al futuro.
Nel tempo dell’intelligenza artificiale, dei fascicoli sanitari elettronici e della medicina predittiva, i dati non sono più solo numeri: sono storie di vita.
Proteggerli non significa rallentare l’innovazione, ma orientarla.
Perché una tecnologia che non sa custodire l’umano finisce, prima o poi, per smarrirlo.
E la vera sostenibilità – anche digitale – nasce sempre da qui.
Diffondi questo contenuto

